Affinità, potenza, attività intrinseca, efficacia, curve dose-risposta
Tutte le molecole che si legano ad un recettore sono dotate di una certa affinità.
L’affinità è definita come la misura della capacità di un ligando di legarsi al suo recettore: R + X <=> RX. Essendo reversibile, tale reazione è definita da una costante che è descritta come costante di associazione o costante di affinità (Ka) che è uguale al rapporto tra la concentrazione dei complessi farmaco-recettore e il prodotto tra il recettore libero e la concentrazione del ligando:
Ka = [RX]_
[R][X]
Questo concettualmente indica che più alta è l’affinità, maggiore sarà la formazione dei complessi farmaco-recettore. La Ka indica la forza del legame chimico tra farmaco e recettore, cioè è una forma diretta del numero di legami chimici che si instaura tra farmaco e recettore. Questa è una caratteristica di tutti i farmaci agonisti ed antagonisti.
L’affinità è un indice della potenza di un farmaco: quanto maggiore è l’affinità, tanto maggiore è la potenza del farmaco.
La potenza è la concentrazione di farmaco in grado di occupare il 50% dei siti di riconoscimento. Tanto minore è la concentrazione di farmaco in grado di occupare il 50% dei siti di riconoscimento, tanto maggiore è la potenza di un
farmaco. La potenza può anche essere considerata come la dose efficace 50. In generale, più un farmaco è potente, più alta è la sua affinità per il bersaglio, più è bassa la dose che bisogna somministrare, più sicuro è il suo uso.
Per calcolare la potenza di un farmaco si possono considerare le curve dose-risposta. Esse correlano l’entità della risposta alla concentrazione di farmaco. Sull’asse delle ascisse sono riportate le concentrazioni crescenti di 3 farmaci e per ciascuno dei 3 è stata costruita una curva. Questa correla due variabili: le concentrazioni con l’intensità dell’effetto espressa in %. Se si vuol sapere quale dei 3 è il più potente, bisogna riferirsi alla concentrazione di farmaco che è in grado di produrre il 50% dell’effetto massimo. Da questi farmaci si deduce che la prima curva è più spostata a sinistra rispetto alle altre ed avrà una potenza maggiore rispetto ai farmaci per i quali sono state costruite le altre due curve, dato che raggiungerà una qualsiasi percentuale di effetto prima degli altri farmaci.
Un’altra caratteristica è l’attività intrinseca. È una proprietà solo dei farmaci agonisti perché indica la capacità del farmaco di iniziare la risposta biologica una volta legato al recettore ed una volta che si è formato il complesso. Tale proprietà non è posseduta dagli antagonisti perché non sono in grado di determinare alcuna modificazione conformazionale tale da poter generare una risposta biologica quantificabile.
Quindi, gli antagonisti godono solo dell’affinità mentre gli agonisti godono di affinità e attività intrinseca.
L’efficacia è l’entità dell’effetto generato; farmaci agonisti dello stesso recettore che inducono lo stesso effetto, è possibile che inducano una risposta di entità diversa.
La lettura dell’efficacia si serve delle stesse curve dose-risposta che correlano l’intensità dell’effetto con le concentrazioni di un farmaco. Quella ivi rappresentata è la curva dose-effetto con l’effetto in percentuale sulle ordinate e le concentrazioni crescenti di farmaci agonisti sulle ascisse. Paragonando le 3 curve che si riferiscono a 3 farmaci agonisti diversi, interagenti con lo stesso recettore e che mediano lo stesso effetto, ne emerge che un farmaco evoca la sua risposta massima del 100% con una tipica curva a sigmoide; gli altri farmaci non raggiungono invece l’effetto massimo pur aumentando la concentrazione dell’agonista. Si raggiunge un plateau in tutte e 2 le curve ma lontano dall’effetto massimo. Come si comportano allora i 3 farmaci sullo stesso recettore? Il primo è un agonista puro o pieno, cioè che ha un’attività intrinseca pari al 100% e può indurre l’effetto massimo; gli altri 2 si comportano come agonisti parziali, dato che non riescono a generare una risposta massima.
I 3 farmaci hanno allora un’attività intrinseca diversa ed è questa che si correla all’efficacia del farmaco, intendendo la capacità di indurre modificazioni conformazionali che devono avviare una serie di eventi biochimici o bioelettrici responsabili della risposta biologica.
Gli agonisti parziali rispetto agli agonisti puri hanno un vantaggio: somministrando cronicamente un farmaco (agonista puro) ci sarà il fenomeno della farmaco-tolleranza, quindi per ottenere lo stesso effetto bisogna aumentare la dose di farmaco fino a raggiungere un nuovo livello di adattamento, e a lungo andare il farmaco perderà la sua efficacia. L’agonista parziale, invece, con più difficoltà va incontro alla farmaco-tolleranza.
Un esempio è dato dal fenoldopam, farmaco usato nel trattamento all’ipertensione, che è un agonista dopaminergico. Agisce a livello periferico sui recettori D1 determinando vasodilatazione e quindi riduzione della pressoria. Il fenoldopam è un agonista parziale, quindi induce vasodilatazione ma non produce l’effetto massimo come la dopamina.
Da un punto di vista pratico per valutare il comportamento dei diversi agonisti (puro e parziale) si utilizza un sistema cellulare ove sono espressi dei recettori accoppiati alle proteine G; con il meccanismo di trasduzione si ha la formazione dei secondi messaggeri. Incubando il sistema in presenza di un agonista pieno e un altro con un agonista parziale, si misurano i livelli di secondo messaggero: in presenza di un agonista pieno, questi livelli saranno massimi; quelli di un agonista parziale saranno inferiori.
Considerando i recettori ionotropici, con l’agonista puro si ha una conduttanza ionica massima, mentre con il parziale si osserva una conduttanza ionica inferiore.
Articolo creato il 3 marzo 2010.
Ultimo aggiornamento: vedi sotto il titolo.